Poeti alla corte di Federico II

In Sicilia, presso la Magna Curia di Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia (1220-1250), grazie alla circolazione di interessi filosofici, giuridici e scientifici, fioriscono personalità che, anche grazie alla spinta del medesimo sovrano, danno vita a quella che comunemente è chiamata Scuola poetica siciliana, la quale si propone finalità letterarie ed estetiche, fornendo così i primi esempi di letteratura in lingua di , il siciliano. È una poesia d’amore, il cui modello di riferimento è la poesia provenzale.

     Tuttavia, diversamente dai trovatori provenzali, i poeti della corte sono anche funzionari: giuristi, magistrati, notai, diplomatici. Ne consegue che, per costoro, l’attività letteraria è intesa come forma piacevole di distacco dalle mansioni ufficiali della corte. Ciononostante, essi sono consapevoli del fatto di condividere un ambizioso progetto culturale.

     La Magna Curia di Federico II, e di suo figlio Manfredi poi, esercitò un potente polo di attrazione per i letterati dell’epoca; a maggior ragione per il fatto che, sebbene la capitale fosse Palermo, si trattava di una corte itinerante.

     Il termine “scuola” suggerisce l’idea di una comunità di intenti, nonché di uniformità nel poetare. Tuttavia, la lettura dei testi suggerisce la presenza di differenti concezioni dell’amore.

     Questo amore da un lato accomuna idealmente gli uomini, dall’altro genera una diversa scala valoriale. Anche l’educazione sentimentale, pertanto, rientra in questo programma di educazione culturale promosso dal sovrano.

Ms. Pal. lat. 1071 (De arte venandi cum avibus), c. 1v, XIII sec., Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana [da A.L. Trombetti Budriesi (a cura di), Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, Bari-Roma, Laterza, 2009]

     La nascita della lirica siciliana in volgare fu un vero e proprio “atto fondativo”. Servirsi del siciliano, sebbene depurato e affinato, mantenuto su un registro alto grazie all’influenza del latino, era pertanto non solo una novità, ma anche una necessità: creare un nuovo pubblico e rafforzare il disegno politico già da tempo accarezzato dall’Imperatore.

     I Siciliani adottarono, tuttavia, una netta selezione tematica rispetto ai generi del grande canto cortese. Questi poeti privilegiarono intanto i trovatori della cosiddetta quarta generazione (secc. XII-XIII). Conseguenza necessaria è l’assenza, nella produzione poetica, di generi e temi inerenti la polemica e la politica. Risultano assenti generi occitanici quali il sirventese – di argomento prettamente politico –, la dansa, l’alba e la ballata. La pastorella viene rifunzionalizzata nel più classico contrasto amoroso.

     Questo sforzo è quello di dare dignità letteraria alla lingua volgare – il siciliano illustre –, facendo così emergere in prestigio del sovrano, promotore e fautore di questa idea. Pertanto, l’argomento cardine dei poeti siciliani è esclusivamente l’amore, dedotto dalla dottrina dell’amor cortese dei provenzali, la fin’amors.

     Il termine “cortesia” è legato a quella civiltà fiorita nelle corti europee – in particolare nel sud della Francia – nel corso dei secoli IX-XII. Nel suo periodo di massimo sviluppo, i castelli e le loro corti cominciarono a divenire la sede più idonea per la nascente attività culturale e artistica.

            Gli aristocratici cominciano a ospitare e proteggere letterati e poeti di corte, i trovatori (rimatori in lingua d’oc) nelle corti del sud, i trovieri (rimatori in lingua d’oïl) al nord della Francia.

     Il termine denota il nucleo della società feudale, il luogo in cui risiede il signore e feudatario, insieme ai ministri, ai consiglieri, ai cavalieri che costituiscono il suo entourage. L’amor cortese ha il suo ancoraggio in questo ambiente, anche se le sue radici sono più antiche – si pensi a Ovidio: l’Ars amatoria, i Remedia amoris, gli Amores e infine le Heroides.

     Alla base della fin’amors sta il postulato che l’amore, per sua natura, non può non essere che extraconiugale (nel rapporto coniugiale sussisteva solo una forma di maritalis affectio).

     L’adulterio – anche se mai promosso a chiare lettere – viene ridimensionato a pura fantasia o a tema letterario. Tuttavia, il diritto a godere dell’amore si afferma a prescindere dal matrimonio, sacramento legato a prevalenti ragioni dinastiche.

     Intorno all’ultimo decennio del secolo XII, fiorisce un’opera quale il De amore di Andrea Cappellano. Il trattato è noto anche col nome di Gualtieri, dal suo dedicatario. Se Andrea rimane per noi ancora misterioso, così non sembra per il dedicatario, identificato con Gautier le jeune, ciambellano del re Filippo Augusto, nato intorno al 1163. Nel De amore, assieme alla secolare tradizione medica, confluiscono i moderni valori della società cortese-cavalleresca.

Cappellano definisce così la natura dell’amore (De amore, I, 3):

     L’amore è, per così dire, una passione naturale che si origina dalla vista e dal pensiero ossessivo della bellezza di una persona di sesso diverso, in séguito a cui uno desidera sopra ogni altra cosa di godere dell’amplesso dell’altro e di portare a compimento, in questo stesso amplesso fisico, con volontà concorde, tutti i precetti d’amore.

     Il principio dell’amore quale potenza nobilitante si coniuga alla componente erotica. Il che non cancella il nesso fra amore e nobiltà, anzi, lo rafforza.

     Quanto alla immoderata cogitatio non si può prescindere da talune premesse di Ovidio e dal repertorio medico sulla cosiddetta “malattia d’amore” (aegritudo amoris), della quale aveva parlato Avicenna1, fornendo una descrizione molto simile a quella della melanconia proposta dal medico Rufo di Efeso. L’ipotesi era che l’amore in sé non nascesse come malattia, ma che divenisse tale nel momento in cui degenerava in pensiero ossessivo. Cappellano distingue inoltre tra amore puro (purus) e impuro (mixtus). Il primo coincide con la fin’amors.

     A quanto detto, si tenga conto che le rime, la produzione e i temi utilizzati da questi poeti stabiliranno quelle che sono le regole di questo amor cortese. I trovatori occitani giunsero a codificare una concezione dell’amore che si adattasse al meglio alle dame di corte, nonché alle castellane.

     L’elemento fondamentale che spicca è quello del servitium amoris, la cui ricompensa consiste in una soddisfazione simbolica: un dono, un sorriso, il saluto; oppure la devozione stessa nei confronti di midons.

     I termini utilizzati appartengono al linguaggio feudale cavalleresco. Il servitium è la lealtà e l’aiuto in guerra del vassallo nei confronti del suo signore. È da notare che gli stessi trovatori, nel rivolgersi all’amata, non utilizzano mai il vocativo femminile, ma dona, bensì quello maschile, midontç, midons, come a voler confermare la lealtà nei riguardi del loro signore.

     Le tematiche derivate sono: l’omaggio alla dama, la subordinazione di amante alla sua signora, la segretezza dell’amore.
L’interesse di questi poeti è rivolto maggiormente ai riverberi interiori dell’anima – alle volte spirituali – riguardanti la natura di amore; ciò permette di scandagliare un arco maggiore della fenomenologia amorosa, l’esplorazione del desiderio in primis.

Cod. Banco rari 217 (già Palat. 418), c. 8v, XIII sec., Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

     La destinazione principale di questa produzione è delegata alla lettura. Rispetto ai modelli trobadorici, i poeti siciliani decretano il definitivo divorzio tra poesia e musica. Il carattere precipuamente elitario di questa produzione ha permesso inoltre l’affermazione e il perfezionamento del genere “canzone” e l’invenzione del “sonetto”, ascritta a Giacomo da Lentini.

     Giacomo inaugura per primo una vera e propria scoperta dell’io lirico, facendosi promotore di una poesia espressa in una lingua depurata da localismi e da forti influenze geografiche. Pertanto il Notaro è, a buon diritto, da considerare il primo grande poeta della nostra tradizione lirica. Il criterio che si intende usare nella scelta dei testi è quello vulgato risalente a Gianfranco Contini: rimatori appartenenti, o gravitanti, intorno alla Magna Curia e dei quali il testimone più autorevole è il Canzoniere Vaticano Latino 3797.