Giacomo da Lentini

Definito il “Notaro” per antonomasia, nacque a Lentini probabilmente tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo.
La sua produzione poetica è di straordinario rilievo nell’ambito della Letteratura italiana delle Origini: 14 canzoni, 1 discordo, 19 sonetti, dei quali 3 sonetti in tenzone.

     Ebbe una formazione culturale di carattere giuridico, come attestano, in forma indiretta, anche i manoscritti poetici che tramandano il suo nome nella forma “Notaro Giacomo”. È lecito supporre che Giacomo abbia frequentato l’Università di Napoli, fondata dallo stesso Federico II nel 1224. Fu al servizio dell’imperatore svevo in qualità di notaio e scriba.

     l servizio più prezioso reso da Giacomo al suo sovrano e mecenate resta comunque la sua produzione poetica, che si iscrive all’interno del progetto federiciano di dar vita a una lirica di ispirazione laica e in lingua volgare e che desse lustro al Regno di Sicilia. Tutto ciò si tradusse nella trattazione esclusiva di tematiche d’amore. La scelta del “siciliano illustre” non fu compiuta solo a scapito del latino, ma anche e soprattutto in opposizione al provenzale dei trovatori, al francese antico dei trovieri e al medioalto tedesco dei Minnesänger, cioè alle lingue della lirica europea:

E in verità quegli uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie. Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore a ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italiani più nobili d’animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni; e poiché sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano: ciò che anche noi teniamo per fermo, e che i nostri posteri non potranno mutare. (Dante, D.v.e. I, xii, 4)

     Giacomo è concordemente considerato il punto d’inizio della storia poetica italiana, perché le sue canzoni e i suoi sonetti aprono le sezioni a essi rispettivamente dedicate nel codice Vaticano Latino 3793. Esclusi i riferimenti storico-politici, l’opera di Giacomo è interamente concentrata sull’amore. Emergono aspetti quali la sofferenza dell’amore non corrisposto, l’incomunicabilità tra amante e amata, lo stato d’animo dell’amante-poeta, la riflessione teorica sulla natura d’amore.

     L’amore cantato da Giacomo è la fin’amors. Giacomo, tuttavia, privilegia l’analisi dell’interiorità, dell’io lirico, piuttosto che lo scambio interpersonale. Gli stilemi della lirica cortese: il guiderdone, l’alternanza euforia-disforia dello stato d’animo di amante, il rispetto del celar, l’inaccessibilità dell’amata sono ripensati nella direzione della ricerca interiore. L’origine fisica dell’amore, legata alla sua ossessione mentale, determina spesso una visione drammatica di amore, (visione che attraverso Guinizzelli arriverà a Cavalcanti).

     La canzone Madonna dir vo voglio, citata da Dante nel De vulgari eloquentia (I, xii, 8)1 – rispetto all’originale di Folchetto di Marsiglia (A vos, midontç, voill retrair’en cantan) –, mostra un diverso atteggiamento nei confronti di “madonna”: il poeta non supplica la dama di accondiscendere ai suoi desideri, ma si limita a notificarle il proprio stato di amante non ricambiato.

     Letto nel suo insieme, il corpus delle liriche di Giacomo si presenta come un discorso di carattere intellettualistico e dai toni più raziocinanti che passionali, in cui si avverte l’ambizione di toccare i luoghi più vasti rispetto al più ristretto dominio amoroso della tradizione, fornendo così un paradigma del cantare d’amore che trovi in se medesimo la propria ragion d’essere. L’innamoramento è un fatto che nasce e arriva a compimento all’interno di amante, secondo il classico percorso dagli occhi al cuore, teorizzato dal De Amore: il pensiero viene a tal punto ottenebrato da non riuscire a esprimerlo compiutamente.

     Probabilmente, nell’agosto 1233, Giacomo e Piero Della Vigna hanno avuto occasione di rispondere alla questione sulla natura di amore posta dal falconiere imperiale Iacopo Mostacci: dando vita a una delle due tenzoni poetiche in sonetti cui Giacomo partecipò. Forse Piero Della Vigna, fu anche intermediario tra Giacomo e l’Abate di Tivoli, il corrispondente dell’altra tenzone (identificabile con l’abate del monastero della Mentorella). Questa tenzone potrebbe essersi svolta nel 1241, anno in cui Federico II fu a Tivoli.

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