Introduzione

Il poeta aspira al paradiso, ma soprattutto per potervi finalmente contemplare le bellezze della sua amata: accedere al cielo senza di lei non avrebbe alcun valore.  

Pertanto, senza la propria donna il poeta non vorrebbe andare in paradiso, qui rappresentato attraverso tre vocaboli chiave dell’amor cortese: “sollazzo”, “gioco”, “riso”. Giacomo riprende il dialogo immaginario fra Dio e amante già presente nel componimento “Autra vetz” di Monge de Montaudon [BdT 305.7], svolgendolo in modo del tutto interiore, secondo temi tipici quali l’euforia della presenza e la disforia dell’assenza. 

Questo sonetto è importante per il processo di interazione tra temi religiosi ed erotici, che caratterizzano la lirica d’amore del secolo XIII e che culmina nello stilnovismo. Contrariamente alla spiritualizzazione della donna e alla sua “angelicazione”, prevale una riduzione della prospettiva religiosa a favore di quella terrena. Tale caratteristica è segno di apertura nei confronti della nuova cultura laica.   

Il rapporto di devozione con Dio assume le vesti del rapporto vassallo-signore, fondato sul servire, sulla lealtà e sul “guiderdone” (ricompensa). Attraverso il servizio il poeta mira a un particolare beneficio, la beatitudine paradisiaca.  

In questo contesto cortese la donna occupa la posizione centrale, essa è il centro e la fonte della cortesia. Il poeta, dunque, afferma che non potrebbe andare in paradiso senza la sua donna: la beatitudine si configura nei termini della “gioia” cortese, la quale non potrebbe esistere senza la presenza di madonna.  

Dietro questo omaggio alla donna amata, tuttavia, si delinea una forte ambiguità tra amore celeste e amore terreno, quando non un conflitto: si tratta di quel conflitto costitutivo dell’amor cortese tra “eros” e “caritas”.  

Se la donna è sublimata, fino a diventare una sorta di divinità, l’amore o il culto per lei, non può entrare in conflitto con quello per Dio. Questo accostamento induce il poeta a doversi giustificare: il rimatore precisa, infatti, che non vuole avere la donna con sé in paradiso per commettere peccato, ma solo per contemplarla in tutta la sua “gloria”. 

Nei versi conclusivi viene ribadita la bellezza sovrumana della donna: degna della gloria celeste. La contemplazione della donna in gloria non si sostituisce pertanto a quella di Dio. È questo uno dei primi esempi, in lingua italiana, del processo di sublimazione della figura femminile, proseguito in seguito da Guinizzelli e dagli stilnovisti.  

Il topico omaggio feudale alla donna si trasforma, grazie alle iperboli del linguaggio poetico, nella trasfigurazione della donna in creatura sovrannaturale, quasi angelica, capace di mediare il rapporto dell’uomo con la realtà trascendente.