La caccia in Sicilia

     Una produzione agricola improntata sotto il segno di una crescente espansione delle tecniche e che si evolve verso la monocultura dei cereali costituisce lo sfondo del milieu naturale siciliano prima della conquista normanna. A ciò si sovrappone un potere, costituito da una distesa di castelli e di riserve forestiere in una Sicilia il cui paesaggio, già profondamente umanizzato, è stato rimodellato interamente. A un territorio amministrato dalla nobiltà urbana, i Normanni sostituiscono gradualmente un paesaggio unitario. Raggruppato attorno a casali abitati lontani dai borghi; questo terreno indifferenziato viene regolarmente messo a coltura da imprese cerealicole, slittando verso la tipologia classica del latifondo.  

     La protezione della Corte reale ha permesso di salvaguardare la parte migliore della selvaggina siciliana; ciò spiega il mantenimento di vasti boschi, che costituiscono il biotipo indispensabile per le specie sfruttate dalla caccia.

Ms. Pal. lat. 1071 (De arte venandi cum avibus), c. 1v, XIII sec., Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana [da A.L. Trombetti Budriesi (a cura di), Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, Bari-Roma, Laterza, 2009].

     La caccia, attività aristocratica e regale, si stabilisce sull’arco montano che contorna le rive del Mar Tirreno, grazie a un denso tavolato di parchi, di difese e di castelli.     

     Il piacere della caccia, il gusto dell’aristocrazia per un’attività fisica che la prepari alla guerra, la valorizzazione di uno sport nobile, ne caratterizzano e sottolineano l’originalità. Durante questo momento storico, questo interesse che ha appassionato Federico II – si pensi al De arte venandi cum avibus –, oltrepassa queste norme; la Sicilia diventa la riserva dove rifornirsi di falconi e di selvaggina. La conduzione dei nuovi intrattenimenti regi si inserisce nel vasto progetto di rimodellare la geografia degli stabilimenti umani dell’isola intera.  

Scrive l’Imperatore: 

L’argomento dell’opera è, dunque, l’arte di cacciare con gli uccelli; una delle parti di cui si compone, definita teoria, consiste nell’esame attento (dei problemi inerenti l’arte della caccia) e nella comprensione, l’altra, definita pratica, nell’azione […]. 

     Nostra intenzione è far conoscere, attraverso quest’opera dedicata alla caccia con gli uccelli, le cose che sono, come sono, e di ricondurle alla certezza di un’arte: di esse nessuno, finora, ha posseduto scienza (conoscenza teorica) né arte (conoscenza, abilità pratica). 

(P. I, 2-3. Si cita da A.L. Trombetti Budriesi (a cura di), Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, Bari-Roma, Laterza, 2009)

     Federico II ereditava in effetti un dominio considerevole di riserve di caccia: la cui costituzione si situa sotto i primi principi Normanni. Questo patrimonio non è stato conservato e protetto: i forestali, già riorganizzati dai Normanni, ristabiliti nei loro diritti da Federico II e reclutati dai dai suoi successori, si disperdono nei ruoli dell’amministrazione nel quattordicesimo secolo.  

     Sia a livello di attività sportiva, che di piacere, i nobili non sono sicuramente i soli siciliani a cacciare. L’esercizio individuale del diritto di caccia, sotto convenzione e dovuto al pagamento di una gabella al rappresentante feudale, è senza dubbio stato praticato. Tuttavia, questi cacciatori appaiono come dei professionisti, ma di una caccia più modesta. Il cacciatore professionista, al contrario, esercita e mantiene i diritti acquisiti. L’aristocrazia feudale tenderà a limitare e a preservare la caccia.   

     La caccia si inscrive, dunque, al centro della storia sociale dell’isola nel momento in cui la comunità raggiunge il punto massimo di coesione demografica e di forza. 

Immagine tratta da H. Bresc, Politique, et société en Sicile, XIIe - XVe siècles (1990) , London - New Y ork, Routledge, 2017.