La caccia in Sicilia
Una produzione agricola improntata sotto il segno di una crescente espansione delle tecniche e che si evolve verso la monocultura dei cereali costituisce lo sfondo del milieu naturale siciliano prima della conquista normanna. A ciò si sovrappone un potere, costituito da una distesa di castelli e di riserve forestiere in una Sicilia il cui paesaggio, già profondamente umanizzato, è stato rimodellato interamente. A un territorio amministrato dalla nobiltà urbana, i Normanni sostituiscono gradualmente un paesaggio unitario. Raggruppato attorno a casali abitati lontani dai borghi; questo terreno indifferenziato viene regolarmente messo a coltura da imprese cerealicole, slittando verso la tipologia classica del latifondo.
La protezione della Corte reale ha permesso di salvaguardare la parte migliore della selvaggina siciliana; ciò spiega il mantenimento di vasti boschi, che costituiscono il biotipo indispensabile per le specie sfruttate dalla caccia.
La caccia, attività aristocratica e regale, si stabilisce sull’arco montano che contorna le rive del Mar Tirreno, grazie a un denso tavolato di parchi, di difese e di castelli.
Il piacere della caccia, il gusto dell’aristocrazia per un’attività fisica che la prepari alla guerra, la valorizzazione di uno sport nobile, ne caratterizzano e sottolineano l’originalità. Durante questo momento storico, questo interesse che ha appassionato Federico II – si pensi al De arte venandi cum avibus –, oltrepassa queste norme; la Sicilia diventa la riserva dove rifornirsi di falconi e di selvaggina. La conduzione dei nuovi intrattenimenti regi si inserisce nel vasto progetto di rimodellare la geografia degli stabilimenti umani dell’isola intera.
Scrive l’Imperatore:
L’argomento dell’opera è, dunque, l’arte di cacciare con gli uccelli; una delle parti di cui si compone, definita teoria, consiste nell’esame attento (dei problemi inerenti l’arte della caccia) e nella comprensione, l’altra, definita pratica, nell’azione […].
Nostra intenzione è far conoscere, attraverso quest’opera dedicata alla caccia con gli uccelli, le cose che sono, come sono, e di ricondurle alla certezza di un’arte: di esse nessuno, finora, ha posseduto scienza (conoscenza teorica) né arte (conoscenza, abilità pratica).
(P. I, 2-3. Si cita da A.L. Trombetti Budriesi (a cura di), Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, Bari-Roma, Laterza, 2009)
Federico II ereditava in effetti un dominio considerevole di riserve di caccia: la cui costituzione si situa sotto i primi principi Normanni. Questo patrimonio non è stato conservato e protetto: i forestali, già riorganizzati dai Normanni, ristabiliti nei loro diritti da Federico II e reclutati dai dai suoi successori, si disperdono nei ruoli dell’amministrazione nel quattordicesimo secolo.
Sia a livello di attività sportiva, che di piacere, i nobili non sono sicuramente i soli siciliani a cacciare. L’esercizio individuale del diritto di caccia, sotto convenzione e dovuto al pagamento di una gabella al rappresentante feudale, è senza dubbio stato praticato. Tuttavia, questi cacciatori appaiono come dei professionisti, ma di una caccia più modesta. Il cacciatore professionista, al contrario, esercita e mantiene i diritti acquisiti. L’aristocrazia feudale tenderà a limitare e a preservare la caccia.
La caccia si inscrive, dunque, al centro della storia sociale dell’isola nel momento in cui la comunità raggiunge il punto massimo di coesione demografica e di forza.